Scenari. Alcune grandi aziende rinunciano al Chief marketing officer a favore di figure manageriali ibride

Visione a lungo raggio, misurare, ascolto del mercato, utente connesso, ma distratto… Condividiamo pienamente le parole dell’autore: Giampaolo Colletti chi di voi ci legge e ci conosce sa che quando ci incontriamo usiamo costantemente le parole riportate nell’articolo.

di Giampaolo Colletti

Volo cancellato. Anzi, di più. L’intera flotta a terra per forti perturbazioni non metereologiche, bensì di mercato. La metafora del Guardian per raccontare una delle più assurde bancarotte degli anni moderni non lascia spazio ad equivoci. La caduta dall’Olimpo dell’operatore turistico britannico Thomas Cook – gigante nato quasi centottanta anni fa, fatturato di miliardi all’anno e una voragine di, miliardi nell’ultima drammatica semestrale – non si può solo spiegare con l’effetto Brexit e il crollo della sterlina. Dietro ai mila turisti rimasti appiedati in ogni angolo del mondo c’è la mancanza di visione a lungo raggio, restando dentro la metafora. «Tutto ciò significa non mettersi in ascolto del mercato», ha argomentato il columnist Nils Pratley. Perché il colosso è stato messo in ginocchio dal cambiamento delle abitudini di viaggio dei clienti, col ricorso alle low cost e ad una disintermediazione dell’esperienza del viaggio. Saper leggere il mercato e la contemporaneità per orientare il business e la narrazione, in un contesto più complesso, più fluido, con competitor inesistenti rispetto soltanto a pochi anni fa. È la fine del marketing? Si salvi chi può. In quello che un tempo era il dorato mondo del marketing è scattato il campanello d’allarme. I chief marketing officer, figure storiche di riferimento per i brand del mondo, si stanno assottigliando. A raccontarlo con numeri alla mano è Adage.com. La testata americana si è chiesta come mai questi professionisti stiano diminuendo. Oggi il % dei colossi mondiali Fortune  dispone di un direttore marketing. Ma attenzione: dieci anni fa il dato era al %, secondo la rilevazione della società di ricerca Spencer Stuart. E c’è di più: negli ultimi anni brand del calibro di Jhonson & Jhonson, Uber, Taco, Hyatt Hotel hanno rinunciato a questo ruolo. «Le aziende stanno consolidando le funzioni di marketing dando mandati più ampi e includendo funzioni commerciali», ha scritto Jhon Shultz su Adage.com. Nascono nuovi perimetri professionali: negli organigrammi entrano chief growth officer, chief experience officer, chief brand officer. «È come se la stessa parola marketing avesse bisogno di una campagna specifica di marketing. Siamo a quel punto di non ritorno in cui occorre stabilire cosa significhi realmente il marketing in questa epoca. Queste figure sono da sempre impegnate a raccontare, stupire, colpire. Oggi si tratta di avere una conversazione autentica con il cliente. Non si tratta più solo di creatività», ha detto Keith Johnston, vicepresidente dell’agenzia Forrester. D’altronde le responsabilità stanno cambiando, il tipo di lavoro richiede competenze nuove e la funzione deve diventare un investimento misurabile, anziché un costo calcolato: ne è convinto Giuseppe Stigliano, Ceo di Wunderman Thompson Italia, agenzia del Gruppo WPP, e co-autore con Philip Kotler di “Retail .” edito da Mondadori. «Il marketing sta evolvendo e non si limita più a celebrare prodotti e servizi enfatizzandone gli aspetti distintivi e sottolineando il modo in cui un brand rappresenta la risposta ideale a bisogni e desideri del pubblico. Oggi si deve andare oltre. Il dialogo che i nuovi media consentono di instaurare con le persone offre alle aziende la concreta possibilità di sviluppare soluzioni ad hoc. Così il marketing recupera una funzione centrale, posizionandosi come propulsore di innovazione, oltre che amplificatore di notorietà», afferma Stigliano. Un cambio di paradigma per le aziende. «Innanzitutto devono riflettere su che ruolo abbia il marketing per loro. E questo è molto soggettivo poiché dipende innanzitutto dalla cultura aziendale. Ma è anche legato alla maturità del mercato e dei prodotti e servizi offerti rispetto agli specifici settori. Oggi l’enfasi viene via via posta su aspetti diversi: c’è la crescita, sottolineando che dal marketing ci si aspetta la capacità di incidere in modo determinante e misurabile sul fatturato. C’è la marca, a testimonianza della sua importanza in un mondo più saturo di alternative. C’è il cliente, e in questo caso l’enfasi è sul “making things people want”. C’è la customer experience che rappresenta una delle parole-chiave degli ultimi anni», precisa Stigliano. Nuovi lavori per nuove relazioni Cambia così la relazione col cliente. «Questa rivoluzione è più evidente nei settori meno soggetti a rigide regolamentazioni ed è più dirompente quando il grado di autonomia dell’azienda nell’innovazione di un prodotto o di servizio è elevato», puntualizza Stigliano. «Per un marketing manager le competenze relazionali sono basilari. Poi c’è certamente il saper leggere i dati, analizzarli, interpretarli, sintetizzarli e tradurli in scelte, azioni, campagne», afferma Angelo Di Gregorio, docente in management e direttore del CRIET. Con altri ricercatori ha mappato gli annunci legati al marketing, facendo emergere una figura poliedrica. «Il paradigma classico del marketing va integrato con quanto porta il digitale. C’è però una difficoltà: gestire l’omnicanalità senza restarne intrappolati», dice Chiara Mauri, docente di marketing alla LIUC Università di Castellanza. La sfida resta coinvolgere un utente connesso, ma distratto. «Chi opera nel marketing deve avere un profilo ibrido. Non c’è più il fuoriclasse e genio isolato. Si gioca e si vince in team».